Rinaldo Caddeo su "Reticenze" di Mauro Germani
Il volume di Germani debutta con un racconto di una cartella, compatto, feroce, sorprendente. Non c’è nulla di troppo eppure c’è tutto. È suddiviso nei tre momenti topici del dramma classico (esordio, sviluppo, epilogo) e il ritmo che lo scandisce è ternario come una terzina della Commedia di Dante. Parla, in prima persona, di un uomo che tenta il suicidio e viene salvato dal fratello che lo ospita a casa sua. Il protagonista sembra essersi ripreso e aver ritrovata la tranquillità perduta. Tutto bene? No, l’epilogo, con un colpo di scena, offre la soluzione di un duplice omicidio e la certezza dell’omicida che poi si suicida di aver ripristinato la verità.
L’ultimo racconto, lungo il doppio, Il discepolo, racconta la morte di un prete, padre Domenico, mentre sta officiando la messa. La conclusione è edificante, con una salvifica apparizione in sogno di Domenico. Lo sguardo può riposarsi su di un altare ricoperto di fiori.
In mezzo, sessantotto racconti brevi: sparizioni, capovolgimenti, invasioni, fughe, inseguimenti, terremoti, incendi, epidemie, attese, sogni, incubi. In prima persona, tra Buzzati e Borges, tra sogni e realtà. Ragionamenti e deliri. Cronache e riflessioni. Delitti e redenzione.
In modo ancora più lucido e determinato che nelle precedenti prove narrative, l’autore mette a disposizione del lettore multipli punti di vista e di ascolto che sono la narrazione, una dopo l’altra, delle molteplici e complesse organizzazioni emotive e mentali del mondo discontinuo in cui viviamo. Spesso si parte da una situazione di oppressione, stanchezza, mutismo, narcosi, ossessione, angoscia, solitudine, noia. C’è una vasta e complessa casistica del male di vivere. La voce narrante descrive le risorse e i mezzi escogitati per uscire da queste situazioni.
In Sporco (p.62) il protagonista, ossessionato dallo sporco, si lava in continuazione e riduce al minimo indispensabile l’alimentazione. Ma lo sporco dei corpi, dei vestiti, del sudore, delle secrezioni, degli escrementi, dell’aria, dell’acqua, dei marciapiedi, lo sporco della vita, persino degli ospedali, è ineliminabile e in aumento.
Contrasto (p.64) è la denuncia di una contraddizione insanabile tra i principi morali condivisi in un ambiente interno come una chiesa e il comportamento esterno, all’aperto, che viola sistematicamente i principi cristiani, professati in chiesa, di rispetto e solidarietà.
Ne L’incidente (p.73) il protagonista, uscito da una festa di compleanno, urta con la macchina contro qualcosa. Non vede, c’è la nebbia. Si ferma, esce dalla vettura e scopre il corpo esanime di un uomo a terra. Preso dal panico scappa. Il giorno dopo cerca ma non trova, né su internet né sui giornali, notizia dell’incidente e così nei giorni successivi. Divorato dal rimorso e sicuro che non si tratti di un sogno o di un’allucinazione, ritorna sul luogo del delitto ma non trova nessuna traccia dell’incidente e nessuno sa niente. Gli resta da coltivare un senso crescente di colpa e una sequela senza fine di domande inevase su di sé.
Ne La gatta (p.84), invece, c’è un lieto fine. Un ragazzo introverso ottiene ciò che la scienza aveva escluso: la guarigione di Mitzi, l’amatissima gatta, l’unico essere vivente con cui sia riuscito ad instaurare un legame.
In Invasioni (p.93), cinghiali, coccodrilli, serpenti, con caratteristiche mostruose e repellenti, insieme ad altre bestie sconosciute, s’insinuano nella vita normale della gente e la sconvolgono.
In La chiesa (p.95), la voce narrante descrive un sogno ricorsivo, dove, in una chiesa diroccata, incontra uno sconosciuto che gli chiede aiuto. Quello sconosciuto ha il suo volto.
Ne L’appuntamento (p.97) l’incontro, invece, con un funzionamento giallistico della struttura narrativa, è con il diavolo mai nominato come tale (ennesima, clamorosa reticenza).
In L’unico (p.129), si descrive l’espansione di un centro commerciale che ingloba tutto e tutti.
Ne La stanza vuota (p.157), incontriamo un concetto zen di vuoto come spazio a cui abbandonarsi per rigenerarsi. Si tratta di una stanza vuota tenuta nascosta nella propria casa.
La lettura del volume è intrigante grazie alla tensione dell’io verso un altrove. Il linguaggio di queste brevi, multiformi narrazioni innesca lo streben aderendo alla mente turbata e al sentire inquieto dei suoi personaggi, spesso senza un nome. Lo stile si sottrae alle descrizioni minuziose, è didascalico nella presentazione dei fatti ma affilato nella loro promulgazione. «Le parole – più che pietre – sono vetri: tagliano e feriscono chi le pronuncia e chi le ascolta. Sono frammenti di specchi acuminati. Ci perdiamo nei loro riflessi, ci laceriamo senza saperlo.» (Le ultime parole, p.37).
Vorrei concludere con un racconto, La nuova vita (p.79), paradigmatico. Si può suddividere in due parti. Una prima parte presenta un carattere autobiografico. Descrive gli eventi rituali di un insegnante che va in pensione: la festa dei colleghi a scuola, il senso di liberazione del protagonista, la prospettiva di potersi dedicare senza limiti di tempo ai propri interessi, i frustranti ritorni a scuola, dopo la pensione, per ritrovare i colleghi da cui emerge sempre più la consapevolezza di una distanza crescente e incolmabile che impedisce di sapere che cosa davvero accada a scuola adesso che non c’è più lui. E poi i sogni. I sogni tipici e ricorsivi di un insegnante in pensione: fare lezione in classe, partecipare a scrutini e collegi. Fino a qui c’è la possibilità per il lettore di immedesimarsi in una normale, ordinaria malinconia: chi non l’ha pensata o provata in situazioni di questo genere? Ma tutto ciò all’autore non basta. L’immaginario di Mauro Germani, spronato da un misto di nostalgia e di sehnsucht, un desiderio malato e una percezione struggente delle cose, sfonda il muro delle convenzioni, aumenta la realtà con un’altra realtà (una realtà altra), innescando una narrazione focalizzata sulla devianza, su di un delirio che prende il sopravvento e si fa azione: «Fu così che, dopo un anno dal mio pensionamento, presi la decisione. Non ne potevo più. Dovevo essere ancora lì. E alle 7,30 entrai dal cancello che dà accesso al cortile retrostante l’edificio, lo attraversai e scesi nel vecchio magazzino. Come avevo previsto, la porta non era chiusa a chiave. Mi sistemai dietro alcuni banchi e una cattedra in disuso.
Da quella volta non sono più uscito. Quando la scuola è vuota, con la mia torcia elettrica giro per i vari locali: aule, sala insegnanti, palestra, segreteria, biblioteca. Ispeziono, controllo, leggo le circolari, gli avvisi esposti nella bacheca, osservo i cartelloni realizzati dagli alunni e appesi alle pareti. Ho provato ad andarmene, ma non riesco. E poi perché dovrei abbandonare questo luogo che è stato la mia vita per tanti anni? Per fare che cosa, fuori? I viveri che ho con me stanno per finire, ma non m’importa. So che, prima o poi, mi troveranno qui, nel vecchio magazzino. Morto.» (pp.80-81).
È un finale tragicomico tra Pirandello e Carver. Racconta con frasi brevi, concitate, che esprimono l’affanno della nuova ricerca, un ritorno spettrale, furtivo e notturno, in un retrostante del vissuto: dato che il Nostro non può rientrare davanti, ci s’infila da dietro, dal vecchio magazzino. Dà inizio a un’ispezione archeologica che cerca la verità nelle reliquie dei processi di apprendimento ed esplora la vita dentro le tracce morte che lascia dietro di sé il quotidiano della scuola: le circolari, la bacheca, i cartelloni… Tutto il resto diventa secondario, anche le necessità insormontabili dell’esistere. La fine, che mi ricorda con tutte le debite differenze La Metamorfosi di Kafka, si riassume in una parola, epitome di un’esistenza, lì da sola, adagiata e solitaria, come il nostro eroe (come Gregor Samsa): Morto.
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