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#pietredifiume - settembre 2024

PAROLA CHE LACERA E DECIDE

Francesco Filia




 

 

Se si volesse fare una tipizzazione della figura del poeta in rapporto alla missione che esso, più o meno consapevolmente, affida a se stesso e ai suoi versi, potremmo individuare due macro categorie: la prima che forse è quella originaria, che deriva dallo sciamanesimo, dal poeta sciamano, al confine tra culto e mito,  che rivela e canta la legge del cosmo e degli dei,  della vita e della morte ma che  consola e orienta, è portatore di un senso per la comunità a cui si rivolge quindi anche per l’individuo, il cui modello si fa risalire ad Orfeo. Una seconda categoria, forse successiva storicamente, ma altrettanto originaria nel teatro della psiche, quella del poeta che mette in evidenza le contraddizioni dell’esistenza, le sue lacerazioni che ne mostra il sostrato tragico e doloroso senza offrire soluzioni o rimedi, se non quello del canto stesso e della sua illusoria evanescenza. Spesso questi due prototipi si sono presentati nello stesso soggetto, o in fasi diversi della sua produzione o sono risultati prevalenti  in una fase della civiltà o in un’epoca, in alcune è prevalso il primo e in altre, di crisi o di passaggio, il secondo, come ad esempio tra il XIX secolo e il XX secolo. Sono due modelli che, detto per inciso, spesso hanno anche un rapporto diverso con il potere, forse nel primo più dialogante o per lo meno dialettico, nel secondo il rapporto risulta più problematico se non riottoso.

Ed ora che accade? Sembra che il portato civilizzatore della parola poetica, sia come parola fondatrice che come parole che erode e critica, di cui i due modelli citati sono espressione, è quasi del tutto svanito. Siamo in un’epoca, che possiamo fa risalire alla seconda metà del ‘900, in cui la marginalizzazione della poesia, con il passare dei decenni, è sempre più evidente e inconfutabile. Epoca in cui i luoghi comuni radicati nella mentalità quotidiana sono portati all’ennesima potenza,  primo tra tutti, che la poesia sia un semplice sfogo dell’animo, qualcosa di inessenziale nella vita e che al massimo possa essere un orpello, un passatempo decorativo, sempre più inutile perché sorpassato da altri passatempi sempre più accattivanti, o che si legga o produca nei ritagli di tempo liberi e, dall’altro canto, che invece sia un affare di specialisti e accademie, che si tramanda attraverso un sapere specialistico di cui è difficile comprendere il senso oltre che l’utilità, se non quella di riempire, storie delle letteratura o manuali scolastici sempre più striminziti e liofilizzati. In questo scenario la poesia, che  storicamente nasce come produzione e tecnica di trasmissione del sapere,  è stata sostituita, nella nostra contemporaneità,  come esperienza costitutiva della realtà, dal sapere scientifico-sperimentale e dalla tecnica. Tecnica da cui sono mossi e artificialmente indotti  i nostri desideri,  in cui la nostra individualità si disperde e dimentica se stessa in una  quotidiana immersa nel dominio tecnico in cui la funzione ha sostituito il senso. Dominio tecnologico che tende a separare sempre di più pochi tecnici iperspecializzati, che non sanno ma che sono abili nel loro operare specifico, e tutti noi che invece con l’apparato tecnico crediamo di avere un rapporto di mero utilizzo, ignorante dei meccanismi di funzionamento che per noi non addetti ai lavori hanno la stessa verosimiglianza di una magia. In fondo l’iperspecializzazione tecnica fa ricadere l’umanità in una dimensione di fede cieca nell’idolo tecnico-scientifico, che però, limitandosi a funzionare e non rispondendo alla richiesta di senso dell’uomo, lascia spazio alla credenza acritica delle superstizioni, che mai come nell’esperienza contemporanea fioriscono (sette, radicalismi politici, religiosi ecc.), ridotte esse stesse a prodotti di consumo, offrendo, alla massa di noi consumatori-funzionari dell’apparato tecnico, una visione parziale del mondo. Questo connubio di credenze superstiziose esclude quella meraviglia, quello sgomento che apre un domandare irriducibile, da cui nasce invece la poesia. Poesia che non risponde a nessuna funzione dell’apparato né a nessun valore di mercato, come anche la filosofia e in parte la stessa scienza che indaga il reale al di là del giogo della potenza tecnica. 

Quindi, per focalizzare lo sguardo sul panorama poetico più vicino a noi,  la situazione sembra del tutto esplosa. In una contingenza storica che, per i motivi accennati prima, si presenta come massimamente antipoetica, la poesia risulta risibile e vana. Ciò malgrado le voci poetiche si moltiplicano, grazie soprattutto all’ormai più che ventennale ausilio del web e dei social, ma i poeti sembrano atomi impazziti che si muovono virtualmente e caoticamente ovunque ci sia un minimo di visibilità. Se delle chiese di appartenenza ci sono, sono sempre meno ideologiche e sempre più liquide e basate su interessi, favori, cascami di poteri editoriali o universitari. Ogni poeta si muove a vista, portando la sua microvisione del mondo e sperando che qualcuno la legga o la ascolti o, anche senza leggerla e ascoltarla, la rilanci nel vuoto del web o nella polvere delle residue pubblicazioni cartacee.  Insomma sembra un mondo quello della poesia che muovendosi dalla lirica alla poesia di ricerca, dalla poesia orale alla prosa poetica, dal verso lungo alla riscoperta dell’epica, dalla forma chiusa alla scrittura asemica e così via, apparentemente mostra una grande varietà e vitalità, che però, scavando più al fondo, copre una più radicale insignificanza, se non addirittura una radicale afasia, anche perché alcune di questi ambiti sono già esplorati e dominati da mondi artistici, e dai relativi mercati di riferimento, indipendenti dalla poesia e ben più potenti.

In questa situazione, alla ricerca di un pubblico più vasto, che non sia di poeti o di coloro che aspettano il loro turno per declamare i propri componimenti,  alcuni poeti stanno cercando di modificare la scrittura poetica trasformandola in pillole omeopatiche di saggezza portatile per un lettore sempre meno attento e sempre più distratto. Anche qui il confronto con la sapienza greca  può risultare illuminante. Le filosofie ellenistiche si presentavano come cura dell’animo come pharmakòn, per usare l’espressione epicurea, ma la caratteristica è che questa loro cura aveva la pretesa di essere una cura epistemica, cioè basata sul un vero sapere, che era la sapienza filosofica stessa, da cui poteva scaturire una ‘vera’ saggezza di vita. Adesso invece le proposte di una poesia-farmaco che consoli e orienti, sembrano completamente prive di pensiero e radicalità, e invece sembrano volte a una banalizzazione della parola poetica fino all’inverosimile, volte a solleticare i gusti e i luoghi comuni di un pubblico poco attento e poco attrezzato per la fatica della lettura poetica. Naturalmente questo tipo di proposta trova il favore delle case editrici che ricercano di proporre la poesia come facile prodotto di consumo per un mercato alla ricerca di sempre nuovi spazi, anche quelli che sembrano i più riottosi e improbabili. All’opposto, invece, una certa poesia, che si muove a cavallo tra una aprioristica contestazione del potere o dei micropoteri e la compromissoria ricerca, più o meno inconfessata, di spazi di potere propri da cui a sua volta esercitarlo, si illude ancora di poter provocare, porsi in maniera polemica con il potere o il mainstream, non rendendosi conto che  il gesto provocatorio è già giocato e previsto ab origine dal potere che vorrebbe contestare e che al contrario quel gesto non fa altro che legittimare e giustificare.

In questo quadro, non penso di poter offrire nessuna proposta, che non risulti a sua volta una delle tante trovate per rendersi riconoscibile in un paesaggio sempre più affollato e anonimo. Ognuno continui per la sua strada, confrontandosi nella lettura reciproca, e poi si vedrà, o, forse, non si vedrà, perché la forma della parola poetica svanirà perché antiquata (nonostante i suoi patetici tentativi di stare al passo), non essendo più funzionale all’umano che si sta prefigurando. Bisognerà tentare di dire anche questo, senza troppe illusioni, non blandendo né consolando, senza nemmeno, al contrario, provocando, perché tutto è già stato provocato fino alla nausea. Forse una strada potrebbe essere quella della radicale ‘inattualità’, della consapevolezza della ‘fine’,  della lacerazione e della decisione come ethos della parola poetica, ma anche qui una parola che sia tragica non per compiacimento ma per necessità.

 





Francesco Filia vive a Napoli, dov’è nato nel 1973. Insegna filosofia e storia in un liceo cittadino. Si interessa prevalentemente di filosofia, poesia e critica letteraria. Sue poesie e note critiche sono presenti in numerose riviste e antologie. Ha pubblicato i poemi Il margine di una città (Il Laboratorio, 2008); La neve (Fara, 2012); La zona rossa (Il Laboratorio, 2015), che compongono una trilogia sulla città di Napoli; la plaquette L’inizio rimasto (Il laboratorio, 2017); le raccolte Parole per la resa (CartaCanta, 2017), L’ora stabilita (Fara, 2019) e Nella fine (Puntoacapo, 2023); oltre al libro di saggi critici Corpo a corpo con poeti del ‘900 (Fara, 2020). Suoi testi poetici sono tradotti in inglese e spagnolo.

 



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