Giacomo Bellitto, Track 3 - Note su corde altrui
È evidente che non si possa esaurire la domanda su cosa sia la poesia, o almeno su cosa significhi farla oggi. Però mi piace in proposito confrontarmi con le parole dello splendido articolo di Alessandro Pertosa “Appunti per una poesia in flusso”, apparso qui su Almanacco di Puntoacapo. Parole con le quali mi trovo in particolare risonanza e che, col suo permesso, prendo a prestito nelle citazioni in corsivo a cui segue il mio commento, necessario solo per sottolineare le convergenze di vedute.
Cominciamo così:
Dicono che la mia poesia sia in prosa. I più arditi addirittura scomodano il prosimetro. Ma se è mai possibile dire l’indicibile, dirò: la mia poesia… è poesia in flusso. Flusso di variazioni ritmiche e improvvisazioni che compongono la corrente musicale.
Che la poesia sia “Flusso di variazioni ritmiche” per me è chiaro. Non mi è mai passato per la testa che potesse essere diverso. È stato il modo intuitivo con cui mi sono approcciato alla scrittura, prima di affrontare teorie e letture. È il mio approccio naturale alla parola. Sulla base di questo presupposto mi sono “reiventato la poesia-per-me” prima dei vent’anni, prima di sapere cosa fosse per gli altri, soprattutto gli altri che la sapevano fare per davvero. Se qualcuno mi chiedesse una definizione, non potrei che partire da queste parole, che sento realmente anche mie. Credo che si debba iniziare da qui per poter parlare di poesia, tutto il resto a seguire per declinare altri stili del possibile in versi e non. Una volta letto, il concetto appare lampante, estremamente naturale e praticamente come sempre stato. Nonostante questo, ci tengo a precisare che io non so esattamente cosa scrivo. È sicuramente meglio che se ne occupino altri di dire se si tratta di poesia o di cos’altro. Preferisco.
[...]scrittura che mantenga ritmo e suono, in un flusso continuo non versificato. […] La poesia risplende e suona nella voce che cede a tratti. Ed alla voce consegno il sussulto della parola, che non vuole saperne del verso.
Saltate tutte le regole sull’imbalsamazione della parola, la differenza tra prosa e poesia può darsi nel pensare la seconda come un congegno temporale che condensa in emozione. In fondo, noi stessi siamo una sorta di carillon ermeneutico. Così dovrebbe essere una poesia. La scrittura poetica rimane uno scatto da centometrista in cui dare tutto in uno sforzo esplosivo: è una disciplina anaerobica. È una disciplina in cui, a differenza della prosa, ci si può permettere quasi qualsiasi cosa, anche di andare accapo… oppure no. Rima… oppure no. Contare le sillabe… oppure no. Ovviamente questo vale quando le alternative rispecchiano scelte consapevoli. Paradossalmente, quella più vincolata oggi è la prosa. La poesia, forse perché pochi la tengono in considerazione, è libera di essere un po’ come le pare – passatemi la brutalità.
Sarebbe veramente strano se, in un’epoca in cui tutto si liquefa, l’unica cosa che si intestardisse a non perdere anche gli ultimi vincoli formali fosse proprio la poesia. Che poi, a meno che non lo si faccia per uno studiato effetto comunicativo, che senso ha, oggi, incaponirsi sulla solidità dell’endecasillabo? Perché, se le nostre vite, i nostri pensieri, le nostre identità, ci vanno colando via dalle mani mandandoci ai matti, dovremmo scriverne ostinandoci sulla rigidità di schemi tradizionali quando va bene ottocenteschi, dando la falsa impressione che invece tutto possa mantenersi in una forma? Una qualsiasi forma. Per quale paradosso o necessità psicologica?
È come pretendere di fotografare una cosa che ha cominciato a muoversi troppo velocemente per il nostro otturatore. La gente ci si riconoscerà in una foto così? Non ci sono più orecchie per tutto l’armamentario formale della poesia. Chi si avvicina a leggere, non comprende neanche più. Fermiamoci anche a considerare che il formalismo, tutto il formalismo, è successivo alla banale costatazione che è sempre esistita una cosa chiamata Poesia che si basa, semplicemente e non altro, su una qualche “forma magica” della parola. Non a caso ho sempre avuto latente la fantasia, infantile certo, che pronunciare un verso debba essere come pronunciare un incantesimo. I segni sulla carta o la parola cantata che ti muovono dentro qualcosa che all’improvviso ti conosce. Questo è un verso. Oppure è una successione di sillabe contate… oppure entrambe le cose. Oppure no. Oppure oggi no. Sto esagerando? Mi rendo conto che non possa valere come posizione teorica “adulta”. Può darsi, ma la Poesia è esagerazione.
[...] a maggior ragione nel momento in cui rinnega la rima (alternata, baciata). Perché la rima in chiusura di verso è un accordo maggiore. È la chiusa di una armonia perfetta. Di un incedere trionfante; risorgimentale. Ma io ho bisogno di cadute e di respiri affannati. Di pause e schianti in controtempo. È lo strazio del blues ad affascinarmi. La tortura improvvisata del jazz. E non il primo terzo quinto, con l’accordo che risolve in un’armonia tonale. [...]Ma fare a meno della rima alla fine del verso, non vuol dire negare la rima.
Se non ti rimane nell’orecchio come musica, non è poesia. Se non ti rimane nell’orecchio come un ritornello, o una zanzara in una notte d’estate, non è una poesia. Concordo pienamente sulla questione musicale che anche per me è più che centrale. La musica è l’analogo del carattere umano in movimento.
In proposito, anticipo un altro corsivo del testo originale di Pertosa per potermi esprimere meglio.
Il risuonare della melodia fra il significato e il significante, sottraendo il risultato alla gabbia del verso[...]
[...] Scrivo poesia come fosse una sinfonia. Un brano musicale. Una composizione corale. Per questo la mia pagina bianca è lo spartito; le parole sono le note; la punteggiatura e gli spazi sono le pause (che non sottostanno alle regole della sintassi). Il tutto sgorga come un flusso [...]
Questo si salda alla citazione precedente e mi dà occasione di esprimere il mio atteggiamento in merito. Facendo ciò, riprendo le conclusioni già presenti nella stessa forma nell’introduzione al mio Clinical Diary (Puntoacapo, 2019), con il titolo di “Appunti per la scrittura”.
Nella maggior parte dei casi, i pezzi da me scritti, riportano, accanto al titolo, l’indicazione di un brano di musica classica contemporanea. Quel brano è stato con me nella scrittura e, nei miei desiderata, dovrebbe seguire il lettore nell’interlocuzione col testo. Attenzione: non si tratta di un accessorio. Ma di una modalità di rendere materiale il tentativo di esprimere la pienezza di un frangente di vita di un Altro sulla pagina bianca. Preferisco ripetermi: la musica è la cosa più vicina a come descriverei la struttura del carattere umano. Faccio eco in questo – più o meno a buon diritto – al concetto della filosofia tedesca di Stimmung con cui si intende proprio un ritmo interiore che cessa di essere solo una successione di elementi fisici e diventa il vero e proprio costituente vitalespecifico per l’individuo. Ripeto ancora: incontrare una persona, per me, equivale a incontrare una musica, un ritmo caratteristico. La musicalità è necessaria alla poesia. Ne è la parte invisibile che risiede più nell’orecchio che nell’occhio. Lo stesso orecchio che ci permette di riconoscere la famigliarità delle cose e delle parole a un livello diverso. Troppi scrivono solo per gli occhi.
Cosa fare della poesia, dal momento che si rinuncia alla metrica blindata e alle rime, è questione antica. Alcuni hanno assunto il verso libero, altri il verso sciolto; altri ancora hanno sperimentato varie forme di prosimetro o tentato la via della poesia in prosa, cercando un terreno mediano fra due generi letterari diversi. E c’è infine chi - come Tzvetan Todorov, una quarantina di anni fa - nel suo saggio sulla poesia senza il verso (cfr. Les genres du discours), sosteneva che la caratteristica primaria della poesia in prosa di Rimbaud è lo «stile presentativo» (contrapposto a qualcosa di rappresentativo): e da qui infine l’esperimento della prose en prose (prosa in prosa).
Cosa fare… ottima domanda. Chi trovasse la risposta è pregato di tenermi presente. Per quanto mi riguarda, non ci rimane che cantare. Scrivere una cosa come se si potesse cantare. Ma, a parte tutto, non posso che trovarmi ignorante in proposito. Probabilmente scrivo come scrivo perché non mi hanno mai insegnato a suonare uno strumento. L’ho pensato molte volte. Chissà in quali dei casi sarei stato più virtuoso! Al netto dell’ignoranza, che ben riconosco, credo che dovrò continuare a scrivere perché ne ho bisogno. Non ne posso fare a meno, non è colpa mia. Scusate. Se poi si potrà cantare, canteremo. E chi non vuole, potrà anche non ascoltare. Non mi rimane che ringraziare comunque Pertosa per confortarmi, anche dal punto di vista tecnico e teorico, su alcune mie idee. L’ignoranza è una gran brutta bestia, per fortuna possiamo ancora provare gratitudine per chi ci corregge e spiega cosa pensiamo.
Il flusso va inteso come voce poetica produttiva (anarchicamente produttiva), non come una linea musicale interna ad uno schema armonico. Il ritmo coinvolge la sintassi e si fa vento inafferrabile. La poesia in flusso si sottrae ad ogni presa, a ogni definizione, a ogni blindatura. È chiaro che per parlare di poesia e flusso devo usare la parola, l’immagine sbiadita di una voce, di una definizione. Ma proprio per questo, l’unico modo in cui posso «dire» la poesia in flusso è «dirla» usando il limite linguistico: ovvero una esemplificazione che rende l’idea, ma che va presto abbandonata. Perché non è la definizione a contare. Non è lo schema. E invece di parlarne, bisogna farla la poesia in flusso: fedeli al dettato deriddiano, secondo cui «il ny’a rien au dehors du texte» (non c’è niente fuori dal testo). La poesia parla per sé: non va definita, né spiegata… Eppure tu la spieghi, mi si potrebbe contestare. Sì, la spiego e mi contraddico. Mi contraddico continuamente: contengo moltitudini.
Ritorna ciò che ho sostenuto tangenzialmente pocanzi: la poesia è più libera della prosa. Può essere veramente tutto. È la prosa che non può liberarsi ulteriormente ai livelli di energia della poesia. È la prosa che deve fare attenzione a non scivolare troppo indietro per non diventare poesia. Ma solo perché il suo pubblico non l’accetterebbe. L’orecchio per la poesia è un orecchio elastico, pronto a lasciarsi stupire, più predisposto alla trasformazione delle parole in evocazione, in magia.
Mi permetto, rischiando un po’: Pertosa non spiega, riarrangia. È l’equivalente dell’operazione in musica del riarrangiare un brano. Non credo che gliene si possa volere per questo. Poi, spiegare una poesia: che effetto vi fa quando vi spiegano la vostra canzone preferita? Non vi sembra un po’ una mortificazione? Magari vi capita di pensare che l’altro ci stia mettendo del suo che prima non c’era. La spiegazione di una poesia può esistere solo come commento personale, e a patto che questo sia un’espansione ermeneutica riconosciuta consapevolmente come propria dal commentatore. Vale solo se è un’interpretazione, cioè se si prende atto che ciò che è scritto è una radio attraverso cui ti capita di sentire la tua voce dirti delle cose che sulla pagina non ci sono.
[...]senza tuttavia avvertire l’esigenza di mostrarsi cadenzata nel verso; che talvolta – ma in casi rari – può presentarsi comunque come rottura della voce, della linea armonica centrale: per segnare un punto; o un vuoto. [E non chiedetemi quando accade questa rottura. Posso solo dirvi che accade. Può accadere… quando il flusso di poesia avverte la necessità di un taglio, di una caduta… ecco che il verso compare].
Il verso può oscillare tranquillamente senza vincoli dall’essere solamente pura unità di ritmo, all’essere solamente pura unità di senso. Il verso è una cosa che si trova; l’accapo è un’occasione tra le parole. Sono d’accordo con Pertosa. Alla fine è sempre questione d’orecchio. Sai che ci sei quando, appoggiato alla cassaforte, cercando la combinazione, senti fare un “click”, e hai scassinato il tempo. Si trova come si trova la vena giusta nel marmo inseguendo la forma.
Io continuo a pensare alla poesia come a un'arte prevalentemente orale, che va ascoltata, recitata a voce alta. E in tal senso, allora, la versificazione mi sembra spesso superabile: ma non è detto che lo sia sempre; e soprattutto per me non è detto che lo sarà per sempre.
Su questo ho un’abitudine diversa. Scrivendo, ho sempre immaginato un interlocutore in lettura silenziosa con la musica in sottofondo. È a questo tipo di esperienza che penso quando do un’intenzione alle parole. Anche l’estensione dei pezzi, che in molte occasioni è un handicap, ha il senso di contribuire a una sensazione di immersione in un’atmosfera sincrona con l’andare della musica. Credo che anche l’esperienza di costringere gli occhi dell’interlocutore a saltare da una parte all’altra della pagina più o meno nervosamente, a seconda della brevità del verso, sia un espediente da tenere in considerazione. Anche quello è ritmo. Purtroppo queste caratteristiche e le mie abitudini compositive rendono, a mio parere, ciò che scrivo poco adatto alla lettura ad alta voce in pubblico. Ma questi, sono forse limiti superabili con escamotage tecnologici. Chissà!
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